Enrico Lombardi - Raffaella Vaccari

Vai ai contenuti

Menu principale:

ARCHEOGRAFIE
(sulla pittura di Raffaella Vaccari)

Il lavoro più recente di Raffaella Vaccari si può inscrivere totalmente nell’universo archeografico: i suoi intraducibili segni dorati sembrano infatti restituiti al nostro sguardo da un paziente lavoro di scavo che li ha dissepolti dalle viscere della terra. Vediamo dunque quali sono gli elementi fondanti e costitutivi di questi lavori. Lo sfondo e il segno.
Possiamo dire, quindi, senza tema di smentita, che tutte queste opere sono il risultato della dialettica tra sfondo e segno: uno sfondo terroso, magmatico, in cui l’occhio dell’artista spesso si ferma semplicemente a guardare ciò che accade alla materia fluente e mobile, e un segno che deliberatamente cerca la sua spazialità, il suo senso, la sua stessa ragion d’essere fra gli eventi cromaticamente e matericamente tellurici del fondo.
Siamo di fronte ad un linguaggio che si sviluppa contemporaneamente in due direzioni che potrebbero risultare anche antitetiche e inconciliabili, ma che invece risultano dialettiche e armoniche: la grammatica del più puro informale materico, in cui la pittura sembra farsi da sola - prima gettata e poi governata per quel poco che la materia stessa rende possibile -, e l’atto consapevolmente concettuale di porre su quell’accadimento quasi entropico dei segni limpidi, chiari, decisivi, mi verrebbe da dire orientativi.
Segni che non vengono semplicemente messi sopra, come appoggiati, ma che sono in grado di produrre una profonda simbiosi col fondo, creando un
tutt’uno archetipale o archeografico appunto. A ben guardare non ci interessa sapere se questi sfondi siano stati generati da una pura casualità
fossile o dall’azione dei più svariati agenti atmosferici, ma i segni vi sono stati certamente deposti da mano umana, dalla decisione così totalmente e
dolorosamente umana di lasciare una traccia del proprio fugace passaggio, come a dire: ‘sono qui’, oppure ‘sono stato qui’, o ancora ‘questa è la
testimonianza che ci sono stato anch’io’. E della più originaria volizione testamentaria, questi segni, queste tracce, questi frammenti di cose e parole – la cui interezza è stata divorata dal tempo -, hanno l’evidenza e la natura.
Come se lo scavo dell’archeologo, che lavora instancabilmente alla ricerca di una civiltà scomparsa da tempo, ma alla cui esistenza crede fermamente, si imbattesse improvvisamente in una serie di tavole e formelle, disparate e frammentarie, ognuna delle quali alludesse ad un intero impossibile da ricomporre. E cercasse vanamente, come se fosse di fronte a un puzzle, di trovarvi la possibilità di ricostruire quella singola parola da cui far partire la ricerca del significato di tutte le altre. Per comprendere, alla fine, che quei frammenti trovano la loro ragione solo in se stessi e nessun intero è più possibile, se mai vi fu.
Queste archeografie, dunque, se ci si ferma ad ascoltare il loro mormorio sottile, generano una fitta rete di echi e risonanze, come  brandelli di un intero definitivamente perduto.
Forse per sempre scomparso perché scomparso da sempre.

Enrico Lombardi – estate 2018



Torna ai contenuti | Torna al menu